Con la scomparsa di Luigi Lucchini, l'industria e la finanza italiana perdono una delle figure più rappresentative, uno di quei figli del Dopoguerra che con determinazione e modestia hanno ricostruito e rifatto grande il nostro Paese.
Un uomo fermo, mai stanco di progettare il futuro, capace di trasformare il suo nome in un gruppo nato dal nulla e diventato simbolo e vanto della siderurgia italiana, cui ha dato un respiro europeo. Imprenditore puro, ha fatto dell'autonomia la sua bandiera e ha usato la finanza con accortezza, sempre come strumento a vantaggio della fabbrica: "per arricchire il convento, non i frati", come amava dire.
Ha guidato Confindustria in anni di importanti cambiamenti, affermando con forza la centralità del mercato e dell'impresa come leva imprescindibile per lo sviluppo economico e sociale dell'Italia. Fu capace di instaurare, pur in periodi molto difficili e nella netta distinzione dei ruoli, un dialogo corretto e responsabile con le parti sociali, difendendo con fermezza il referendum sulla scala mobile, ma mantenendo vivi i rapporti con i leader sindacali di allora, Lama, Marini e Benvenuto.
"Senza manifatturiero - disse in un'intervista il giorno del suo 90 compleanno - cioè senza sudore e senza coraggio, non si va lontano". In un momento in cui il Paese vive una situazione di chiara difficoltà, la sua schiva, saggia, lungimiranza mancherà a tutti.